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Ilaria Magni - Giuseppe Ciccia

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Ilaria Magni

Recensioni

                                              "credo in coscienza che la miglior critica sia quella che esce dilettosa e poetica: non una critica fredda ed algebrica, che, col pretesto di tutto spiegare, non sente ne' odio ne' amore......"

                                                                                               (Charles Baudelaire)


Prendendo le mosse delle Théories di Maurice Denis e da tutto ciò che, a cavallo tra Ottocento e Novecento, è stato scritto per riaffermare gli autentici valori della pittura e della scultura, si potrebbe sostenere che nell'arte di Giuseppe Ciccia una classica sintesi risolve l'amalgama delle vribrazioni del colore del gesto ribelle e imperioso, bilanciando l'apparente dicotomia tra astrattismo e figurativo.

Dalla lezione appresa con le avanguardie storiche, ma nell'intimità di un segno dove traspare la memoria di una classica, perduta struggente armonia, si genera nella sua arte una sorta di andamento circolare che richiama alla memoria ancestrale un particolare simbolo ricorrente in svariati miti di culture arcaiche, l'ouroboros (in greco antico oùpo
βòpoc, dove oùpà significa "coda"  e βopòc, vuol dire "divorante"), un serpente che morde la sua stessa coda, apparentemente statico, ma in terno movimento, mitologico emblema dell'energia universale che si consuma di senso panico e sempre si rinnova, ciclica natura rerum, androgino primordiale, totalità del tutto, infinito, eterno ritorno, immortalità.

Un senso del divenire che in mostra si irradia dal trittico Golgota, secondo la tradizione il monte dove avvenne la cricifissione di Gesù, prima ancora luogo della sepoltura di Adamo e dove spesso ne è raffigurato il teschio, ai piedi della Croce, alludendo a Gesù come novello adamo, fondatore della nuova umanità redenta. Questa qualità di continuità è evocata dal candore del bianco e dalla levità della campitura luminosa solcata da dinamici tratti che a lalapena emergono dal fondo.

Un'impressione senza tempo (sine tempore), come si ritrova anche nella serie delle Inquietudini riflesse, dove nell'impianto compositivo si cela un viaggio sinestetico (da oùv, "insieme", e
αϊσθησις "percezione") nella materia plastica e pastosa, nel colore e nel suo peso matematico, nei neri folgorati dalla repentina accensione delle cromie, nella musicalità che ne deriva, rivolgendosi senza filtro alcuno a quella interiorità che legge per istinto i processi inconsci, profondi, psichici e spirituali, richiamando vagamente un flusso di natura naturans come inteso nella concezione panteistica di Baruch Spinoza, osservato nel tempo verso un'idea di bellezza, segno opposto alla natura naturata, ovvero la perfezione come risultato compiuto.

La sostnza di questa esposizione, volutamente essenziale, basata sulla scelta di pochi pezzi, è proprio quella di prendere in considerazione processi artistici di forza espressiva in fierì, una vis che può dirsi non conclusa in un tempo, ma tesa a tracciare dei lineamenti di autonoma fisionomia. E se chiedessimo a Giuseppe Ciccia se con questa definizione saremmo in grado di avvicinarci alla sua lezione, forse potrebbe rispondere che è proprio questa l'idea che dovrebbe avere la possibilità di sopravvivere e non andare perduta, nell'arte comtemporanea, figurativa o astratta che sia.


                                                           
Ilaria Magni


 
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